Scrive Julius Evola ne “Il cammino del Cinabro”: “Quanto alle finalità (del Gruppo di Ur), quella più immediata era il destare una forza superiore da servire d’ausilio al lavoro individuale di ciascuno, forza di cui eventualmente ciascuno potesse far uso. Vi era però anche un fine più ambizioso, cioè l’idea che su quella specie di corpo psichico che si voleva creare potesse innestarsi, per evocazione, una vera influenza dall’alto. In tal caso non sarebbe stata esclusa la possibilità di esercitare, da dietro le quinte. un’azione perfino sulle forze predominanti nell’ambiente generale di allora. Quanto alla direzione di tale azione, i punti principali di riferimento sarebbero stati più o meno quelli di “Imperialismo Pagano” (opera di Julius Evola) e degli ideali “romani” di Arturo Reghini”.
Quindi, quando viene fondato il Gruppo di Ur da Evola, Reghini e Parise, tra gli altri, i punti principali di riferimento furono identificati in “Imperialismo Pagano” e negli ideali “romani” di Arturo Reghini. Repetita iuvant. Vediamo, più in dettaglio, quali furono gli ideali romani di Arturo Reghini:
“Per intendere appieno il significato del patriottismo di Reghini occorre inoltre preliminarmente superare il punto di vista secondo il quale le nazioni sarebbero esclusivamente un portato della modernità, al più un’idea ottocentesca. Per Reghini quella ottocentesca non fu che la riscoperta della dignità del principio della nazionalità che anticamente poggiava sopra fondamenti sacri e tradizionali.
Essi erano metafisicamente definiti dalla dottrina degli etnarchi, ovvero degli Dei nazionali, così esposta dall’imperatore Giuliano: “Dicono i nostri che il Creatore è comun padre e Re di tutti, ma che per il rimanente ha distribuito le nazioni a Dei nazionali e cittadini, ciascuno dei quali governa la propria parte conformemente alla sua natura”.
Col suo patriottismo Reghini poneva anche “un argine all’inveterata tendenza che non esita ad attribuire il carattere romano a qualunque potere purché sia imperiale, anche se sempre più avulso dalle sue radici romane ed italiche e sempre più connesso solamente alla persona degli imperatori, che finisce per seguire ovunque: non solo a Bisanzio, ma anche ad Aquisgrana, ad Arles, a Francoforte, a Ratisbona, a Madrid, a Vienna e persino a Mosca! Inoltre, l’attenzione attirata da Reghini sulla realtà nazionale, che precede logicamente quella imperiale, implica la tendenza positiva, per quanto riguarda il retaggio della Romanità antica, di estendere l’idea di tradizione al periodo repubblicano, superando così la concezione secondo cui l’unica Tradizione Romana da coltivare sarebbe stata quella imperiale”. Infatti “quando l’antica Roma si affacciò alle soglie dell’impero aveva già alle sue spalle secoli di vita della più degna compagine statuale che la storia antica ricordi”.
Reghini fece sua la “visione dell’antica Respublica del glorioso S.P.Q.R. come di un tutto organicamente e gerarchicamente ordinato che aveva la sua maggiore espressione in un corpo politico di ottimati, profondamente radicato nella tradizione nazionale e vigile custode della medesima: il Senato, che ebbe origine come consiglio di Re”. Reghini si rammaricava inoltre che “la politica della chiesa avesse impedito all’Italia di costituirsi in nazione quando invece Inghilterra, Germania, Francia e Spagna vi erano riuscite”. Gli amici più intimi si ricordavano bene del Reghini di qualche anno prima delle celebrazioni del 21 Aprile, Natale di Roma, al Campidoglio e del suo acceso amore per l’idea imperialista. Il più probabile anno di nascita del suo imperialismo è il 1910. Il potere imperiale, per Reghini, non doveva e non poteva di certo basarsi sulla sopraffazione, sulla prepotenza e sulla forza bruta, ma sulla sapienza e sulla conoscenza.
Come giustamente è stato fatto notare, Reghini disse e scrisse tutto quel che era necessario per restituire l’Italia alla sua antica potenza e gloria, basate certo non sulla discriminazione e sulla violenza, ma sulla forza delle idee e dello spirito. Tutto il gruppo pitagorico era animato dagli stessi sentimenti e fin dal suo ingresso in massoneria lo si udì dichiararsi favorevole ad un ideale politico elitario e pagano. Sei mesi prima che apparisse l’articolo “Imperialismo Pagano” sulla rivista “Salamandra” aveva detto di volersi dedicare ad un “serio lavoro” perché avvertiva la necessità di fare qualcosa di speciale per il nostro Paese che gli servisse per una futura base politica. Alla direzione di “Salamandra” giungevano lettere di protesta per il forte contenuto anticristiano e si gridava allo scandalo.
Il gruppo futurista (Papini, Tavolato, Soffici, Palazzeschi) prese molto sul serio il lavoro di Reghini, pur criticandone “l’impostazione passatista”; molti giovani che frequentavano i caffè letterari di Firenze rimasero affascinati dal suo patriottismo e vi fu qualcuno come Daübler, poeta lirico raffinato, che travolto dal nuovo misticismo imperialista, compose gli inni all’Italia di esuberante bellezza. Papini fece dell’ironia dichiarandosi scettico sulle possibilità di successo di un movimento politico pagano.
Nel corso di un confronto molto animato, presente l’intero movimento futurista, Reghini chiarì all’amico scrittore le ragioni filosofiche e meta-politiche dell’idea imperialista. Dopo una lunga stretta di mano Papini gli chiese una maggiore collaborazione a “Lacerba”. L’articolo, dieci anni dopo, nel Marzo 1924 fu ristampato su “Atanòr” nonostante si trattasse di un lavoro datato e richiese da parte dell’autore un’opportuna introduzione. Reghini però non fu un uomo anti – religioso e combatté il cristianesimo come avrebbe fatto un filosofo pitagorico o un senatore romano, dando di volta in volta ai suoi argomenti motivazioni metafisiche e metastoriche.
E’ stato scritto che: “il paganesimo di Reghini si sdoppia nelle direzioni di un pitagorismo (speculativo ed iniziatico) e di un romanesimo fondante la concezione ieratica di una politica di rinnovamento nazionale”.
“Reghini viveva la realtà del suo tempo con superiore distacco, come poteva viverla un pitagorico. Non troviamo in nessuno suo scritto quel fatalismo talvolta angosciante che riscontriamo in Guénon. La sfiducia che Guénon aveva seminato in tutti gli ambienti occultistici con la teoria della crisi del mondo moderno e con la ineluttabilità della fine del ciclo, aveva spinto molti esoteristi in buona fede a ricercare nel mondo orientale un rifugio sicuro in previsione del peggio. Reghini invece rimase sempre saldamente ancorato alla tradizione classica elleno-romana e pitagorica. Quando intuiva che le circostanze gli erano avverse, Reghini trovava sempre un’energia aggiuntiva per affrontarle, reagiva al naturale scetticismo, anche ricorrendo a mezzi apparentemente banali. Neppure una volta gli passò per la mente l’idea che la storia marci in una sola ed unica direzione (positiva o negativa che sia) lasciandosi alle spalle porte chiuse ed equazioni irrisolte. Reghini in questo senso è un filosofo schiettamente rinascimentale e leonardesco.
Reghini era convinto che dopo la caduta dell’impero romano e la chiusura delle scuole filosofiche per opera dei cristiani soltanto il Rinascimento avesse fatto lo sforzo più serio per spezzare il blocco politico che garantiva al cristianesimo il dominio totale sulla società civile, sull’arte, sulla cultura e in definitiva sulle coscienze degli uomini. E mentre Guénon vedeva nella rottura con la filosofia scolastica del medioevo una brusca accelerazione nel distacco dell’occidente dalla Tradizione Metafisica, Reghini al contrario considerava la Rinascenza un salutare risveglio dell’anima italica e pagana verso la riscoperta delle sue antiche radici sapienziali”.
Insieme a Giulio Parise e Julius Evola fonda la rivista “UR”. “Il pitagorismo di Reghini, oltre ad una dimensione teoretica da lui validamente interpretata specialmente sotto il profilo matematico, comporta anche una valenza più strettamente iniziatica che traspare ad esempio chiaramente dalla versione commentata degli aurei detti di Pitagora apparsa sulla rivista UR(11) ed alla quale pose mano lo stesso Reghini, secondo quanto ebbe a riferire Massimo Scaligero”. “L’orizzonte tradizionale di Reghini tuttavia comprendeva anche la Tradizione Romana tout court (sulla quale peraltro il pitagorismo venne ad innestarsi, così come simboleggiato dall’innalzamento nel Foro di una statua di Pitagora dopo che ebbero termine le guerre sannitiche) la quale affonda le sue radici in quell’antichissimo Lazio sul quale, secondo un antico mito italico, regnò felicemente il Re Giano”, seguito da Saturno. Su tale Tradizione Reghini scrisse pagine memorabili. In un suo saggio intitolato “Della Tradizione Occidentale” apparso su “UR” e da lui scritto con lo pseudonimo di Pietro Negri, Reghini si adoperò per:
1 – Contrastare tutti coloro che affermavano che Roma antica non aveva mai posseduto una propria specifica tradizione iniziatica, o addirittura una propria spiritualità.
2 – Spiegare perché è probabile o perlomeno verosimile che una tradizione iniziatica pagano-romana sia giunta ininterrottamente fino ai nostri giorni.
3 – Contestare l’occidentalità del cristianesimo.
4 – Individuare nel simbolismo agricolo il linguaggio iniziatico specificamente romano.
5 – Indicare nel mito di Giano e Saturno, che fa uso di questo simbolismo, il nucleo centrale dell’iniziazione romana.
Reghini pertanto rese testimonianza in favore di una costante immanenza sacrale della Tradizione Romana. E’ questo il dato di fondo che permette di comprendere il particolare orientamento della sua visione metapolitica. (Alfonso del Guercio – Arturo Reghini e la sua opera dedicata alla matematica pitagorica).
Con queste note significative, crediamo di aver illustrato a sufficienza a cosa corrispondessero gli “ideali” romani di Arturo Reghini. Non vi è presenza di profili dottrinari di tipo steineriano o kremmerziano, nè compaiono nella vita e nell’opera di Reghini riferimenti essenziali di osservanza egizio-caldea, nè tantomeno il cristianesimo “solare” di Steiner poteva trovare accoglimento in chi era orientato in senso imperiale-pagano-romano.
Dalle parole di Evola non si evincono collegamenti, ispirazioni, intenti, collegabili a Kremmerz o Steiner, come ultimamente, con grande sforzo e pochi risultati, si sta cercando di dimostrare con studi approssimativi e analisi di poco pregio.
In particolare per Steiner, come ben evidenziato in altre sedi, Evola ebbe sopratutto parole di riprovazione, tenendo una distanza dettata da una impostazione completamente diversa, diremmo opposta, rispetto al dettato steineriano, cosa che portò Evola a scrivere critiche feroci e stroncanti, come incontestabilmente si deduce leggendo le opere evoliane “La dottrina del risveglio” e “Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo”.
Il seguente passo sembra non permettere interpretazioni diverse:
“Essa, (l’antroposofia)… non pretende di diffondere una conoscenza antica e tanto meno orientale, ma va senz’altro a sostenere che una simile conoscenza è inutilizzabile per l’uomo moderno, che all’uomo moderno si confà soltanto un’iniziazione moderna, avente carattere di vera e propria positiva scienza spirituale e, per premessa, il fatto che con la venuta di Cristo la storia del mondo si sarebbe divisa in due parti e la stessa sostanza dell’uomo si sarebbe modificata. Non ci prenderemmo la pena di occuparci di deviazioni del genere, in ordine alle quali, del resto, avemmo già occasione di dare un giudizio discriminante (in “Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo”), se non ci trovassimo a constatare che esse continuano ad esercitare una certa influenza nella stessa Italia di oggi e se esse non contenessero un pericoloso miscuglio di errori e di frammenti di verità, atto appunto a sedurre ogni mente priva di saldi principii. Ma già una dottrina, come quella degli arya, dovrebbe bastare per dare un chiaro senso delle prospettive e delle dignità”. Julius Evola, La Dottrina del Risveglio.
Quanto all’eredità del Gruppo di Ur, che in sostanza significa ispirazione, riferimento, esempio, riportiamo qui alcuni scritti sull’argomento:
Piero Fenili, su Politica Romana n.11 ” “Il Gruppo dei Dioscuri è generalmente conosciuto all’esterno attraverso i quattro fascicoli con i quali venne lanciato quello che riteneva essere il suo particolare “messaggio”. Meno nota è la sua intenzione di ricollegarsi direttamente a quello che era stato, quarant’anni prima (ma quanti sconvolgimenti erano avvenuti in un così breve lasso di tempo!) il celeberrimo Gruppo di Ur, quasi a sancire un’operante ripresa di continuità tra i due “Gruppi”: una pretesa che sicuramente non poteva rientrare nello schema guènoniano relativo alla regolarità della trasmissione iniziatica. Malgrado ciò, ll Gruppo dei Dioscuri si ritenne sufficientemente legittimato ad agire per due ordini di considerazioni, consistenti:
1) nella natura stessa del Gruppo di Ur, assunto come modello di riferimento, che mai, nella sua struttura intelligentemente informale, aveva sostenuto di trarre la propria legittimità da una qualsiasi “regolare” filiazione.
2) nella possibilità, rivelata dal misterioso messaggio di un non meno misterioso Ekatlos, trasmesso al direttore della rivista KRUR (Julius Evola), di ricorrere ad un intervento salvifico dei Numi tutelari di Roma e dell’Italia quando circostanze impellenti e di salute pubblica lo richiedessero”.