Lupus e arcere (ossia tenere lontano, respingere i lupi) secondo Georg Wissowa sarebbe il composto lessicale da cui deriva la parola Lupercalia: la festa che si celebrava ogni anno, il 15 febbraio, per le strade di Roma, allorquando le vie dell’Urbe erano invase da giovani semi-nudi e scatenati, divisi in due sodalizi ( Religion und Kultus der Römer, p. 209). L’ipotesi non è peregrina, basandosi su di una notazione tratta dal commento di Servio all’Eneide (ad Aen. 8,343). Chissà. L’ottimo Varrone, ci fornisce tutt’altra origine e significato per l’arcaico rituale, di natura prettamente lustrale: in realtà, l’esatta derivazione e funzione della festa sono oggetto da oltre un secolo di forbiti saggi e affascinanti speculazioni tra gli studiosi, senza che si possa dire di essere giunti ad alcuna sicurezza. Qui, però, non interessa esaminare nel dettaglio, svolgimento e significato ultimo dei Lupercalia: è semmai di rilievo annotare come l’ipotesi di un arcaico rito pastorizio di difesa delle greggi dall’assalto dalle ferine brame dei lupi possa situarsi, secondo alcuni dei nostri avi, alla radice della festa romana.

Animale molto ambiguo, questo lupo. Nel mondo del simbolismo sacro latino, le cose sembrano assai più complicate di quanto possa apparire, pur tenendo a mente una delle immagini più care e note della romanità: quella della lupa intenta ad allattare Romolo e Remo. Anche se permangono gravi dubbi sulla datazione del famoso manufatto bronzeo capitolino ( il dibattito tra fautori della risalenza all’epoca primo-repubblicana e medievalisti, resta aperto; si veda G. Bartoloni La Lupa Capitolina. Nuove prospettive di studio. Incontro-dibattito in occasione della pubblicazione del volume di Anna Maria Carruba, La Lupa Capitolina: un bronzo medievale) una notizia di Livio (23,11,6) relativa all’anno 296 a.C. segnala come una statua con quest’immagine sarebbe stata eretta presso il Lupercal.

Di certo, v’è come l’apparizione di uno o più lupi all’interno della città, gettasse nel panico la popolazione e le autorità romane; anzi era un avvenimento così grave da essere ricompreso nei prodigia: eventi strani o spaventosi che segnalavano il venire meno (o quantomeno una grave disarmonia, un problema da risolvere urgentemente) della pax deorum, l’antico patto romuleo con gli Dèi che i Romani avevano posto a fondamento delle loro stesse fortune. Le liste conservateci da Tito Livio o Giulio Ossequente (forse di origine pontificale, in speciali annales, forse di impulso magistratuale, nelle relationes de prodigiis annuali da presentare al Senato) registrano ogni anno fenomeni particolari: piogge di sangue, nascite mostruose, statue parlanti, terremoti e molti altri ancora. Ma un posto d’onore, in questi tristi presagi, è riservato al lupo. Se ne contano ben 23, di intrusioni nell’Urbe, dal 494 a.C., sino ad epoca tardo-imperiale. La restituzione delle fonti è la lapidaria, lupus urbem intravit, il significato ultimo immutabile. Ogni volta, invariabilmente, vengono convocati gli esperti della procuratio prodigiorum: nello specifico i Pontefici o gli Aruspici, a seconda dei casi. E pressoché costantemente, la risposta è univoca e non ammette eccezioni: l’apparizione del lupo è signum particolarmente infausto e si deve procedere quanto prima a riti di purificazione (lustratio) o all’offerta espiatoria più opportuna, ovvero, ancora, a preghiere da parte dell’intera popolazione (supplicationes). Neppure gli accampamenti militari sembrano scampare ai cattivi presagi recati seco dalla fiera: nel 218 a.c., poco prima della disfatta del Ticino, l’animale entrò nel castrum romano, facendo a pezzi ogni oggetto che gli si parava incontro. La procuratio e i sacrifici offerti dal console P. Cornelio Scipione (padre del più famoso Scipione Africano) non valsero evidentemente a nulla (Liv. 21,46,1). C’è poco da scherzare con il lupo, dunque. Anzi: una volta entrato nella città, bisogna scovarlo, catturarlo, distruggerlo. Cancellarne fisicamente ogni traccia. Così nei resoconti liviani, il cacciatore diviene preda: l’animale deve essere tolto di mezzo a fil di spada, con il ferro, precisamente. L’uccisione del lupo è il mezzo per riaffermare il primato della civiltà sulla natura, delle corrette leggi sacre sull’empio animale. Pochi altri animali, nella tradizione religiosa latina, possedevano significato altrettanto funesto: il gufo, gli sciami d’api o vespe e in qualche caso, i serpenti. Anche Virgilio, il sommo poeta della sacralità italica e romana, sembra sapere bene quale infausto simbolo sia il lupo: nec tempore eodem tristibus aut extis fibrae apparere minaces aut puteis manare cruor cessauit, aut altae per noctem resonare lupis ululantibus urbes (Georg. 1, 483-486). Gli è che il lupo, spesso è associato alla dimensione infera ovvero ctonia. Lo dimostrano bene le testimonianze greche, in cui la fiera è sì inviata da Apollo; ma si presenta con tutti i caratteri dell’animale infero, a partire dalla pelliccia rossastra, come ci narra Flegonte di Tralle (Mirabilia, 3,14). In ambito italico, il pater Soranus irpino proprio alle cerimonie degli hirpi Sorani (il cui nome deriverebbe dal termine lupo Fest. p. 106 Müller; Strabo 5,226; Serv. ad Aen. 11,785.) è associato all’Apollo infero. Nel mondo etrusco, simili sono i tratti infernali: Aita, il Dio dell’oltretomba, è spesso raffigurato con un copricapo a forma di lupo (v. A.J. Pfiffig, Religio Etrusca, pp. 319-336). Non a caso nei Libri Rituales tusci, il lupo era classificato tra gli animalia infelicia, come ben spiegato dall’intramontabile studio di Carl Thulin (Die Etruskische Disciplin, vol. III, pp.102 ss.).

Al tempo stesso, possediamo importanti testimonianze di natura esattamente contraria a quelle sopra esposte. Plinio il vecchio nella sua enciclopedica Naturalis Historia riporta diverse credenze sulle proprietà magico-terapeutiche del grasso di lupo o del suo fegato. Alcuni si spingevano persino a raccomandare di cingere i neonati con fasce di pelle di lupo, giacché avrebbero ereditato il coraggio dell’animale (Plin. N.H. 28, 142 e 193,230,247). Forse non si tratta di proposte originali della medicina romana, derivando Plinio le sue conoscenze da un trattato greco scritto da Xenocrate di Afrodia. Nondimeno, ove il lupo fosse stato considerato nella cultura popolare romana animale con nefasti influssi, il naturalista latino non vi avrebbe fatto cenno. C’è poi, come noto, molto di più. Il diritto augurale romano assegnava un posto fausto al lupo, inserito nella categoria dei buoni auspici ex quadrupedibus insieme al cavallo, alla volpe, al serpente e altri ancora (si veda Fest. p. 287 Lindsay); e Plinio, ancora una volta, ci informa che osservare un lupo provenire da destra mentre mangia voracemente (pleno ore) era uno dei segni più favorevoli in cui imbattersi. E che dire poi del racconto sui divini gemelli di Roma e sul loro allattamento da parte di una lupa. Si noti bene, di una lupa (cosa, forse, diversa da un lupo Dion. Hal. 1,79; Liv. 1,4; Ov. Fast. 2,381-422; Plut. Rom.3-4; Iust. 42,2; Orig. Gent. Rom. 20-21). Di qui l’associazione con Marte: il lupo come teofania sacra del Dio italico per eccellenza, Lupus Martius o Martialis. Ma non basta. Nello stesso ambito italico, molte popolazioni si rifanno, in un contesto ancora nomadico, quasi selvaggio, alla nostra fiera, come animale totemico del ver sacrum, delle primavere sacre italiche, come ci ha ben illustrato Renato Del Ponte nei suoi fondamentali contributi sul tema (Dei e Miti italici, pp. 125 ss.).

Come spiegare, allora, quest’apparente contraddizione, quest’ambivalenza, che già Julius Evola aveva giustamente osservato e sottolineato (La tradizione di Roma, pp.39-40)? Forse il lupo, come epifania animale del Marte guerriero, simboleggia la guerra e il suo entrare all’interno delle mura cittadine, il suo attraversare e infrangere il pomerium (oltre il quale, si rammenti, doveva stare l’esercito in armi, confine sacro che distingue l’imperium domi dall’imperium militiae, alla base dell’intero sistema pubblico romano) rappresentano l’irruzione drammatica della dimensione bellica nella vita quotidiana romana. Nell’Urbe, si sa, non è permessa la guerra: neppure quella civile. Forse, invece, il timore che il lupo con la sua dimensione infera, una volta entrato nella città possa penetrare nei templi e contaminarli (pollutio), è la giusta spiegazione; un simile divieto era assai diffuso per un altro animale, suo stretto parente: il cane, simbolo ctonio per eccellenza, al quale era permesso vegliare le entrate delle sedi sacre, ma non accedervi (ad es. Plut. Quaest. Rom. 90, 112). Forse, infine, il lupo rappresenta la dimensione del selvaggio, della condizione primordiale ancora selvatica, non ordinata. Della natura incolta che l’Urbe deve tenere distinta da sé: e il lupo ne rappresenta la dimensione più caratteristica, vivendo sulle montagne, nelle selve. A quella dimensione si riferisce, probabilmente, l’uso più arcaico di cingere la testa del parricida in una pelle di lupo (fullico lupino, come attesta Reth. ad Her. 1,1,13) i piedi calzati da un grezzo zoccolo di legno di bosco, prima di ricorrere alla pena, più tarda, della poena cullei (cioè il sacco impermeabile cucito in cui veniva rinchiuso il reo insieme ad un cane, un gallo o una vipera ed una scimmia per essere gettato nel Tevere). E’ la definizione, anzi demarcazione-separazione, simbolica dell’uomo selvaggio, per mezzo della pelle di lupo: del rusticus che non conosce ancora le leggi della civiltà, di colui che con il proprio agire si pone fuori dal contesto della polis (così propone di leggere E. Cantarella I supplizi capitali in Grecia e a Roma. Origini e funzioni della pena di morte nell’antichità classica, pp. 255 ss.). E questo spiegherebbe la presenza della lupa Martia accanto ai gemelli, in un contesto ancora pre-civico, selvaggio per l’appunto; la lupa assiste i gemelli vicino al ficus ruminalis, non a caso. Ma una volta fondata la città, ricevuto l’augurio-auspicio supremo da Juppiter, anche la natura selvatica va regolata: e il lupo deve adeguarvisi; in questo stesso contesto potrebbe trovare giustificazione l’inclusione della fiera tra i segni augurali: il preciso e rigoroso fondamento normativo-religioso degli auspici inviati da Giove, definisce quando, dove e perché il lupo può apparire, assegnando allo stesso un buon significato. Al di fuori di questi casi non può essere tollerato, né ammesso. Diviene prodigium particolarmente negativo.

Sembra esservi anche qualcosa di più sottile. Nel 103 a.C. la riforma dell’esercito voluta da Gaio Mario istituzionalizza l’uso dei simboli per le legioni: l’aquila, auspicium maximum, signora incontrastata dei cieli, simbolo celeste di Giove Ottimo Massimo, sostituisce ogni simbolismo terreno e terrestre dell’indifferenziato: lupo, cinghiale, cavallo, minotauro (Plin. N.H. 10,16). La riforma, comporta un altro aspetto interessante: l’abolizione della classe dei velites, i veliti, ossia i soldati armati alla leggera, di norma perché più poveri, non potendosi costoro permettere l’acquisto di un’armatura. Ora, secondo Polibio (6,22,3) proprio i veliti all’interno dell’esercito romano erano coloro i quali indossavano spesso una pelle di lupo sull’elmo (R.Del Ponte, Dei e Miti Italici pp.144-145 ne trae spunto per una possibile lettura religiosa). Anzi, erano gli unici cui era permesso l’uso di tal copricapo: di certo non ad aquiliferi e/o signiferi, come si afferma di norma ma erroneamente, che invece si coprivano con le sole pelli di orso o leone. Nel modo di combattere, schierati liberamente avanti le fila compatte della struttura oplitica della legione repubblicana, i veliti possono ricordare l’agire dei Mannerbünde italici, le sodalità guerriero sacerdotali primo-italiche, disorganizzate e caotiche che fanno strada agli eserciti organizzati. Sembra quasi che con l’abolizione della fanteria leggera, la Roma tardo-repubblicana voglia tagliare i ponti con il mondo primordiale italico, di cui il lupo era simbolo per eccellenza, per far luogo allo iustum bellum, alla pax romana.

C’è però un’altra spiegazione per questa apparente dicotomia, questa ambivalenza nel simbolismo del lupo. Vale a dire, l’esistenza di due distinte linee di pensiero all’interno della medesima tradizione del sacro o sistema giuridico-religioso. Una prima, pontificale, che vede nel lupo una forma di ierofania animale o semplicemente di prodigium particolarmente nefasto, probabilmente sotto l’influenza dell’Etrusca Disciplina; del resto, un simile influsso è rinvenibile nel catalogo degli arbores infelices/felices (trasmessoci dall’àruspice Tarquitius Priscus in Macr. Sat. 3,20,3) che fu presto adottato dai tecnici del diritto sacrale a Roma; e non può essere escluso che simili liste fossero redatte per le diverse specie animali. Non a caso, allorquando uno o più lupi sono visti entrare in città, l’intervento degli esperti della procuratio prodigiorum involge principalmente due gruppi sacerdotali: quello dei Pontefici, appunto, e quello degli Haruspices. Lungo questa linea di influenza (ma di ciò occorrerà parlare in extenso in altra sede) potrebbe così spiegarsi un altro ambito di intervento dei Pontefici condiviso con la sapienza tuscia e di cui anzi i Tirreni si riteneva fossero i massimi esperti: quello della procuratio delle folgori o fulmini che cadessero a terra o sopra luoghi particolari, come templi o sacelli, anche se occorre dire che i Romani seppero ben presto far luogo a una scienza autonoma.

Una seconda linea di pensiero invece potrebbe farsi risalire a una autonoma forma sapienziale propria del collegio àugurale, scevra da apporti esterni. Qui l’interpretazione del lupo, appare univocamente benigna. D’altro canto, checché se ne dica, fu proprio nel campo dell’interpretazione dei signa augurali (fossero essi rappresentati da fenomeni metereologici o dal volo/canto degli uccelli o proprio da certi quadrupedi) che i Romani mostrarono un’assoluta indipendenza rispetto al sapere Etrusco. E’ un’ipotesi di lavoro: tuttavia essa sembra spiegare perfettamente per qual motivo un medesimo simbolismo animale, potesse assumere così diversi e contrapposti significati.

Quale sia la giusta risposta, forse è meglio distogliere lo sguardo dai lupi, lasciarli al loro habitat naturale. Senza considerarli né amici, né nemici. E nel frattempo, alzare gli occhi al cielo per cercare di scorgervi l’auspicio massimo. La gioviana aquila.

Stefano Bianchi

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