- Etimologia.
Il termine deriva dal verbo indigeto, chiamare da dentro, evocare da dentro, invocare con precisione. Si tratta di un verbo usato nel linguaggio tecnico ponteficale, la cui sua origine è incerta.
È stata proposta un’etimologia da *digito, indicare, che non trova supporto, da index, attraverso indicere (da cui indicia [Fest. 114]), oppure una derivazione da agere: *indu- agere, agire dentro, ovvero agire in un tempo e uno spazio ben definiti, o, sempre da agere, nel senso di parlare (*in- agere, invocare), ma la spiegazione più accreditata è una derivazione da aio, pronunciare, invocare, attraverso un arcaico *agyo, composto con la particella *endo-, dentro, da cui *endo-ag-iet-, e quindi *indi-agit-. Tale spiegazione ha il vantaggio di essere supportata dai fatti della lingua umbra in cui troviamo Açetus, ‘gli Evocatori’ (Açetus, ha a sua volta un corrispettivo nella lingua vestina, Ancites), termine con valore attivo, ma significato passivo, da intendere come ‘gli Dei evocati da dentro’, derivato da *enkitubhos, a sua volta da *en-ki-t-, chiamare da dentro, invocare da dentro (il verbo *ki- / *kei- ha dato il latino ciere).
Questo verbo ha in sé il concetto di indicare con precisione, quindi rivolgersi agli Dei con il loro nome vero e preciso (conscia numina, Dii Certi [Serv. Aen II, 141]), spesso segreto e conosciuto solo dai pontefici [Serv. Aen. II, 351; Aen. VIII, 330; Georg. I, 21; Macr. Sat. I, 12, 21; 17, 15] per via del grande potere che gli era attribuito [Macr. Sat. III, 9, 2; Serv. Aen. II, 351]; affinché la preghiera sortisse un reale effetto, in base al principio secondo cui conoscendo il vero nome di un’entità, si acquisiva potere su di essa; per questo motivo nell’epitome di Festo, gli indigitamenta sono definiti incantamenta [Fest. 114], formule magiche in grado di mettere in moto l’azione delle entità divine.
Per Servio gli indigitamenta erano scritti nei libri dei pontefici, dove veniva anche spiegato il significato di nomi ed epiteti divini. L’erudito romano dà la seguente definizione di indigeto
… indigeto est precor et invoco… [Serv. Aen. XII, 794; cfr. Var. apud. Non. 352]
Anche Tertulliano usa indigeto per pregare [Tert. Jejun. 16]
Secondo un’altra etimologia, indigeto sarebbe un frequentativo di Indigetes, venerare i Dii Indigetes.
Affine a indigetare, era probabilmente axare, nominare [Fest. 8], invocare per nome, sempre in ambito religioso. Si tratta di un antico desiderativo in -s- di aio, parlare, pronunciare, di cui ci è rimasta notizia solo riguardo gli axamenta, i versi del carmen saliare, in cui erano invocate singole divinità con i loro epiteti.
- Indigitamenta
Gli indigitamenta erano formule contenute nei libri dei pontefici [Var. Fr 6 Riese apud Non. 352; Fr 10 Riese apud Non. 108; Fr 13 Riese apud Non. 532; Var. apud Non. 528; Donat. Ad Ter. Phor. I, 1, 15], che comprendevano i nomi delle divinità da invocare in ogni singola circostanza, accompagnati da epiteti che ne definivano la funzione e spiegazioni della loro origine [Tert. Adv. Nat. II, 11; Arnob. Adv. Nat. II, 73]
… i nomi di questi Dei si trovano negli indigitamenta, cioè nei libri dei pontefici in cui sono contenuti i nomi degli Dei e la ragione dei Loro nomi… [Var. apud Serv. Georg. I, 21]
… Tiberinus… i pontefici sono soliti indigitarLo [in questo modo]… [Serv. Aen. VIII, 330]
… infatti le vergini vestali così Lo indigitano ‘Apollo Medice, Apollo Pean’… [Macr. Sat. I, 17, 15]
Dagli esempi che abbiamo, possiamo dedurre che negli elenchi dei pontefici erano contenuti sia i nomi e gli epiteti con cui erano invocati gli Dei Maggiori, dai più antichi (Dei introdotti da Romolo come Tiberinus, Picumnus e Plimnus), a quelli che erano via via integrati nel pantheon romano, come Apollo, sia un lungo elenco di “divinità dell’atto” che presiedevano ad ogni aspetto della vita umana.
La maggior parte delle informazioni che abbiamo sull’argomento derivano da Varrone che lo trattò dettagliatamente nel XIV libro sulle Antichità Divine, oggetto anche di un commento da parte di Antistio Labeone, e di una monografia, De Indigitamenta [Cens. Die Nat. 3], di Granio Flacco, forse anche lui debitore di Varrone.
Risulta che tra gli indigitamenta fossero annoverati tra i Dii Certi, [August. C. D. III, 12; VI, 3; VII, 17] divinità che avevano un campo d’azione ben definito e limitato ad un singolo atto, il cui numero copriva l’intera sfera dell’esistenza umana [AFA 141 – 142; Cens. Die Nat. 3; Tert. Adv. Nat. II, 11], dalla nascita alla morte [August. C. D. IV, 9] e il cui nome era un “nome d’agente” formato a partire dal verbo che definiva l’azione stessa
… i pontefici dicono che a singoli atti presiedono divinità determinate, Queste, Varrone chiama Dii Certi… [Var. apud Serv. II, 141]
… i Dii Certi, presso di voi hanno un’azione definita… [Arnob. Adv. Nat. II, 65]
Si trattava di vere divinità (Dii sempiterni, non divi) la cui natura era ‘certa’, potremmo dire precisa, circoscritta [Var. apud Serv. Aen. VIII, 275] e ‘propria’, ovvero collegata a qualcosa di ben definito [Serv. Aen. II, 141; Arnob. II, 65; Cens. Die Nat. 3].
Erano chiamati anche Dii Minuti [Plaut. Casin. 310; August. C. D. IV, 9, 16; VII, 2] per via della limitatezza della loro attività e furono oggetto di sarcasmo e attacchi da parte degli autori cristiani [August. C. D. VI, 11; 22 – 23; VI, 1; 9; VII, 2 – 4; 11], che, così facendo, hanno preservato molti passi delle opere in cui erano nominati.
Varrone, nel XIV libro delle Antichità Divine, li suddivide in due categorie: quelli che presiedono alla vita umana e alle sue fasi dalla nascita alla morte e quelli che presiedono ai beni materiali necessari alla vita umana, come il cibo, gli abiti, la casa [August. C. D. VI, 9; VII, 17].
Gli indigitamenta sono una caratteristica peculiare della religione romana e forse italica, poiché li ritroviamo anche in ambito eugubino1. Il centro della religione romana era il rito, l’esperienza che introduceva nella dimensione del sacer, la sfera del divino, “tagliata via”, separata da quella umana del profanus. Quando si entrava in questo dominio, ogni elemento, soprattutto le azioni, concretizzava il divino, gli Dei erano presenti negli atti compiuti dai celebranti che dovevano seguire un preciso e minuzioso rituale per riuscire efficaci, graditi agli enti superiori. Carattere essenziale del rito, era la sua completezza, ovvero il fatto che fossero menzionate e invocate tutte le divinità senza che alcuna fosse trascurata.
L’azione in sé non era però sufficiente a realizzare il rito, quello che vi infondeva completa efficacia, era la parola, il fari, il pronunciare le formule corrette, il nominare con precisione ogni azione (indigitare) le conferiva quella potenza magica in grado di “richiamare” la divinità ed ottenere l’effetto che ci si prefiggeva. A questo valore performativo della parola allude un passo di Plinio secondo cui ogni sacrificio doveva essere accompagnato da una preghiera per essere eseguito correttamente, rite, e quindi avere effetto
… Quippe victimas aedi sine precatione non videtur referre aut deos rite consuli… [Plin. Nat. Hist. XXVIII, 3, 10]
- Formazione delle liste
Affinché un rito avesse effetto era necessario poter nominare le divinità a cui era rivolto, ossia evocarne la presenza attraverso l’appropriato nome. Per questo motivo era fondamentale che, in ogni formula rituale la divinità a cui ci si rivolgesse fosse indicata con precisione: per i Romani non potevano esistere “Dei Innominabili”, enti divini senza nome, indefinibili e privi di una sfera d’azione ben definita, “sostanze” divine senza precise specificazioni come vorrebbero alcuni studiosi. Ovvero, vi erano casi in cui i romani avevano a che fare con divinità sconosciute, le quali avevano mostrato la loro presenza, ma non si erano rivelate (da notare che il concetto di “presenza” è sempre specifico, è sempre “presenza di un Dio”, come vedremo oltre, mai “presenza del divino”): queste situazioni erano sempre fonte di grande turbamento e timore come narra Evandro a Enea, riferendosi all’antichissimo monte Campidoglio, dimora di una divinità che non si era ancora manifestata come Juppiter
… un tempo ispido di selvatici cespugli [il Campidoglio]. Già allora il timore religioso (religio) atterriva gli abitanti dei campi… “questo bosco – disse – … abita un Dio, ma quale Dio è incerto”… [Verg. Aen. VIII, 348 – 352]
Un Dio sconosciuto, un Dio “incerto” non può essere “nominato”, quindi non Lo si può placare, è una divinità con cui non è possibile stringere un patto per cui è impossibile instaurare la pax deorum hominumque.
Per questo motivo compito dei pontefici era individuare sempre il nome appropriato per ogni ente divino e ogni sua manifestazione, il Numen, che, lungi dall’identificare un’energia, o una pura sostanza divina, è sempre numen di una specifica divinità: presenza, volontà espressa da un Dio determinato2.
Quando non erano gli Dei stessi a rivelare il proprio Nome, la disciplina ponteficale attribuiva un nome all’ente divino in base alla sua modalità di manifestazione, l’esempio più famoso è quello di a Ajus Locutus, “il Parlante che ha parlato”, nome che fu dato a una divinità sconosciuta che si manifestò nel 391 aev preannunciando al plebeo M. Caedicius l’imminente attacco dei Galli. Quando costui riportò l’evento ai magistrati, non fu creduto ma, dopo la fine dell’assedio gallico, il popolo romano, come forma di espiazione dedicò un culto al Dio; poiché non si conosceva altro se non il fatto che si fosse manifestato attraverso la parola, i pontefici gli attribuirono un nome d’agente conforme alla modalità con cui si era palesato [Cic. Div. I, 101; II, 69; Var. apud Gell. XVI, 17; Liv. V, 32, 6; 50, 5; 52, 11; Plut. Cam. XXX; Fort. Rom. V].
Solo quando questa via non poteva essere percorsa, i romani ricorrevano al nome sive deus, sive dea [Cato Agr. CXXXIX], che va inteso come un vero e proprio nome, il più generale possibile, attribuito a una divinità la cui presenza in un determinato luogo non si è manifestata attraverso un’azione specifica, come nel caso del bosco di Dea Dia
… sive deus sive dea, in cuius tutela hic lucus locusve est… [AFA 146]
Una caratteristica della religione romana, almeno per come la conosciamo dalle fonti in nostro possesso, era quella di vedere il piano divino come una civitas, di cui gli Dei erano i cives, disposti in un ordine gerarchico che vedeva al livello superiore i Dii Majores e a quello inferiore i Dii Minuti, una sorta di plebs deorum [Ov. Met. I, 171 – 73], o Dii Famuli [August. C. D. IV, 1; Mart. VIII, 50]. Sembra quindi, che per la religione romana, in molte occasioni, la funzione di una divinità maggiore si esplicitasse attraverso una serie di azioni cui presiedeva una sorta di ministri o servitori (Famuli Dii, o anche Dii Anculi [Fest. 20])3 [Lact. Inst. I, 7, 5].
… Flora erat apud antiquos ministra Cereris, cuius sacra in mense Aprili celebrabantur, quando flores in arboribus sunt. In his autem sacris omnia turpia impune committebant mulieres… [Cornut. In Juv. Comm. VI, 249]
… Virgilio considera Anchise come un Dio perché gli attribuisce un servitore. Ogni divinità disponeva infatti di una potenza inferiore con funzione di servitore (minister)… [Serv. Aen. V, 54]
Affinché l’invocazione di una divinità fosse perfetta e completa, tutti questi servitori dovevano essere menzionati, senza tralasciarne alcuno: solo in questo modo l’azione della divinità avrebbe potuto essere perfetta e senza ambiguità.
Attraverso questo principio possiamo spiegare la lista di indigitamenta che Fabio Pittore trae dai libri ponteficali, per una sacrum ceriale, una cerimonia in onore di Cerere, forse compiuta in occasione delle Feriae Sementivae, riportata da Servio
… Vervactor, Reparator, Inporcitor, Insitor, Obarator, Occator, Sarritor, Subruncinator, Messor, Convector, Conditor, Promitor… [Fab. Pict. Jur. Pont. Fr 3 apud Serv. Georg. I, 21]
All’invocazione della Dea, si associa quella dei suoi famuli, ciascuno preposto a una singola operazione e che per questo motivo riceve un nome d’agente, costruito semplicemente a partire dall’azione cui è preposto.
Un’altra possibilità seguita dai pontefici era, ricomprendere l’intera funzione di una divinità attraverso una coppia polare che ne definisse i limiti, come nel caso di Janus indigitato come Patulcius et Clavius [Macr. Sat. I, 9, 15; Ov. Fast. I, 126 – 130; Corn. Labeo apud Lyd. Mens. IV, 1 – 2; Serv. Aen. VII, 610], o Ceres, indigitata come Panda et Cela [Var. Sat. Men. Skiam, Fr 1 (506) apud Gel. XIII, 23, 4]
Tali liste erano probabilmente costruite volta per volta dai pontefici, in relazione a una circostanza specifica e poi conservate nei libri ponteficali, per poter essere usate nuovamente quando ve ne fosse stata la necessità. È probabile che i testi non contenessero solo le liste, ma anche la ratio attraverso cui ogni nome era stato costruito. A giudicare dalle fonti che possediamo, il gruppo di questi Dii Minuti doveva essere molto numeroso: il loro numero si accresceva in particolare in relazione ai momenti cruciali della vita umana, quelli che un tempo erano veri e proprii riti di passaggio, di cui però, in epoca classica, si conservava solo un’eco nella devozione popolare. Considerati i momenti più critici dell’esistenza (come ogni passaggio tra le fasi della vita o da un luogo ad un altro, che portava dal conosciuto, allo sconosciuto), erano scanditi da precisi rituali cui presiedevano le divinità principali del pantheon romano, in particolare Juno, di cui purtroppo non ci resta altro che elenchi di indigitamenta.
In molti casi i nomi di questi Dii Minuti sono confusi con gli epiteti dei Dii Majores, come nel caso di una lista di epiteti di Juppiter, fornitaci da Apuleio
… Fulgurator, Tonituralis, Fulminator, Imbricitor, Serenator, Frugifer, Custos, Hospitalis, Amicalis, Militaris, Triumphator, Tropaephorus, Propagator… [Apul. De Mundo 37]
La quale mescola epiteti noti del Dio, con altri costruiti come nomi d’agente, con la stessa modalità degli indigitamenta.
In altri casi questi nomi sembrano costruiti in modo da distinguersi dagli epiteti, come Jugatinus [August. C. D. VI, 11] che ricorda Juno Juga [Fest. 104], o Domiducus [August. C. D. VI, 9], che ricorda Juno Domoduca [Mart. Cap. II, 149; Myth. III, 4, 3]. Tale necessità di distinzione potrebbe essere all’origine dell’ambiguità sul genere di alcuni indigitamenta, come Messia e Messor [Tert. De Spect. 8; Serv. Georg. I, 21], o Proma e Promitor [Serv. Georg. I, 21; August. C. D. IV, 8].
Maurizio Gallina.
1 S. Sisani – Vumbrorum Gens Antiquissima Italiae, Perugia 2009 pgg 104 – 115; G. Devoto – Le Tavole di Gubbio, Firenze 1977 per i testi, la traduzione e il commento
2 G. Dumézil – Archaic Roman Religion, Johns Hopkins Edition, 1996 pgg 19 – 21; 28 – 31, cui si rimanda per la discussione e gli esempi
3 J. Scheid – Quando Fare è Credere, Bari, 2011 pgg 46 – 70