Renato Del Ponte, “Su alcune precisazione di “Ius Sacrum” nelle XII Tavole”, in “La città degli dèi”, 2003, ECIG, Genova.
“AD DIVOS ADEUNTO CASTE, PIETATEM
ADHIBENTO, OPES AMOVENTO QUI SECUS
FAXIT, DEUS IPSE VINDEX ERIT”. Cicerone – De legibus, II. 8-9.
E’ inutile accostarsi agli altari degli dèi se l’animo non è puro al pari di quello di un fanciullo e senza la fiducia attesa che solo la pietas divina può dare: necessaria e spontanea deve essere la generosità nelle offerte, secondo certe regole e certe modalità prescritte dai collegi sacerdotali. La purità di cuore ed il cosciente adeguamento alla volontà divina (fatum) – di cui è esempio preclaro il pius Aeneas – sono quindi considerati la condizione preliminare di ogni rito. In caso contrario inevitabile sarà la punizione divina, poichè sono gli dèi stessi i muti testimoni dell’azione sacrificale e solo loro (non i magistrati, che sono solo uomini e, al più, strumenti degli dèi) in grado di leggere nel cuore di chi loro si accosta.
“SEPARATIM NEMO ABESSIT DEOS NEVE
NOVOS NEVE ADVENAS NISI PUBLICE
ADSCITOS; PRIVATIM COLUNTO QUOS RITE
A PATRIBUS ACCEPERINT”.
Questa norma parrebbe andare contro la proverbiale tolleranza dei culti che la tradizione attribuisce ai romani. Ma si ricordi che la tolleranza concerneva i culti degli “altri” popoli con cui Roma entrava in contatto e che gradatamente includeva nelle propie forme di dominio: era quindi logico e conseguente che invece i propri culti andassero tutelati e protetti. Tale norma delle XII Tavole, come del resto tutte le altre del codice, concerne quindi i soli cittadini, che pertanto debbono ritenersi vincolati ad un patto antico e originario che sta alla base della fondazione stessa dell’Urbe. Questa, nata secondo certi auspici (i dodici avvoltoi del rex-augur Romolo), consacrata secondo certe regole ben precise (il Sulcus Primigenius), è legata a determinate divinità nazionali: Romolo è figlio di Mars pater e sacra il primo tempio a Iuppiter Feretrius; egli è l’ultimo dei re divini che traggono origine, passando attraverso la dinastia albana, dal rex Saturnus, che Ianus pater accolse nel Lazio. E’ pertanto naturale che i cittadini romani – parte inscindibile di un tutto unico – discendenti dai compagni di Romolo, patres delle future gentes, ribadiscano il patto originario escludendo dalla propria sede dèi estranei alla collettività. Ciò recherebbe turbamento (cosa che infatti si verificò più tardi) non solo alla tradizionale pietas verso gli dèi indigeni, ma alla stessa convivenza sociale, che si regge appunto sul consensu deorum. Un culto Diverso da quello praticato da tutti (salvo le rarissime eccezioni riconosciute) non è neppure ammesso a titolo privato: proprio perchè le singole famiglie ed i culti che si svolgono presso i loro focolari sono alla base del culto nazionale, che tutti li riassume nei templi in cui i riti comuni sono officiati dai sacerdotes pubblici populi Romani Quiritium.
“iN URBIBUS DELUBRA HABENTO. LUCOS IN
AGRIS HABENTO ET LARUM SEDES.
RITUS FAMILIAE PATRUMQUE SERVANTO”.
Gli dèi della Città, dei campi e della casa debbono avere adeguati luoghi di culto: le tradizioni religiose della famiglia e degli antenati dovranno essere mantenute. Cicerone commenta dicendo che il “conservare infatti i riti familiari e degli antenati, poichè l’antichità è più vicina alla divinità, è come custodire la religione tramandata dagli dei stessi”. Cicerone, De Legibus II, 11.
E si può ben dire che in tale considerazione sia racchiuso il senso e la giustificazione della tradizione romana: pùò essere integrata dalla seguente sentenza di Ennio, così riassumente l’essenza della Romana fortuna: “Antichi costumi e uomini antichi della romana grandezza sono la base”.