Come ampiamente noto, la romana religio, non ha conosciuto forme iniziatiche di alcun tipo. Vi potevano essere riti pubblici riservati solo a determinate categorie di persone (uomini ovvero donne) così come sacra celebrati lontano da orecchie indiscrete (rito degli Argei, l’Augurium Salutis ad esempio) cui solo alcuni gruppi sacerdotali (e neppure tutti, dipendendo) potevano assistere, accanto a quelli che, di fatto, risultavano gli altri principali attori del culto e cioè i magistrati, chiamati a parlare con gli Déi a nome e per conto della res publica romana. Del resto, nonostante alcune strampalate amenità leggibili hic et inde, i sacerdoti dei collegi o dei sodalizi religiosi dell’Urbe non erano affatto degli iniziati.
La disciplina del loro ingresso era guidata, piuttosto, da altri criteri. In primo luogo si diveniva sacerdoti, solo in quanto si era cives romani (cioè possessori della civitas, la cittadinanza romana piena), di nascita libera e in alcuni casi addirittura perché patrimi e matrimi, cioè con entrambi i genitori ancora viventi per gli opportuni controlli sulla stirpe, altrimenti condotti attraverso il sistema censorio. Altri parametri, invece, risultavano del tutto secondari. Ad esempio, una buona condotta morale : la quale era certamente gradita, ma non necessaria, come dimostrato dal caso di C. Valerio Flacco, eletto alla dignità di flamen Dialis nel 209 a.C. pur avendo conosciuto una gioventù tutt’altro che irreprensibile (LIV. 27, 8, 4-9); , non era richiesta neppure una particolare preparazione dottrinaria o una speciale padronanza dello jus sacrum: anzi, il più delle volte era del tutto assente (e come avrebbe potuto essere diversamente?), basandosi la conoscenza del cultus deum pressoché esclusivamente sulla trasmissione orale e sull’apprendimento, attraverso l’esempio, di regole e comportamenti osservati nell’ambito della famiglia di origine o nel corso dell’esperienza come uomini di stato.
Ciò non significa che poi non potesse formarsi nel corso del sacerdozio intrapreso, una severa e retta disciplina, accompagnata da un’eccellente preparazione dottrinale acquisita attraverso l’esame e studio dei libri e commentarii raccolti negli archivi dei diversi gruppi religiosi di appartenenza: proprio perché l’idea di un apprendimento iniziatico fu estranea a Roma, la conoscenza dell’insieme delle regole sacre era concepita piuttosto come un sapere di natura tecnica e specialistica, conferente una doctrina, una scientia quali basi della peritia e auctoritas necessarie per poter parlare in nome dell’Urbe, trattare con gli organi politico-costituzionali, mediare con il mondo degli Déi.
Dunque, la valutazione dei candidati avveniva, di norma e più ancora che in base a considerazioni politiche o in forza del controllo esercitato da parte di alcuni gruppi gentilizi o singole famiglie (criteri certamente presenti, ma troppo spesso evocati), sulla scorta della valutazione dell’esperienza maturata dagli stessi come magistrati o uomini politici ovvero quali membri del Senato: ricoprendo queste cariche, il soggetto sviluppava una conoscenza generale del savoir faire nell’esame delle questioni attinenti al rapporto tra la città e i suoi Dèi, oltre ad apprendere tematiche più specifiche attinenti le res sacrae, il mantenimento della pax deum e lo svolgimento delle principali celebrazioni civiche o del rituale pubblico. D’altro canto, appare significativo come le fonti non restituiscano indizio alcuno in materia di cerimonie o riti iniziatici cui doveva sottoporsi o sottostare l’aspirante candidato.
Mentre il sistema primigenio di elezione all’interno di ciascun collegio era rappresentato da una scelta effettuata all’interno del gruppo sacerdotale per cooptazione (ccoptatio) senza intervento esterno alcuno e in totale autonomia (sistema degli interna corporis acta), un passo di una lettera di Cicerone indica come la scelta dovesse avvenire in armonia e cioè all’unanimità (Ad fam. 3,10,9). Successivamente , senza entrare nel merito della complessa problematica, si può rammentare come l’elezione del pontefice massimo e dei membri dei quattro principali collegi religiosi, fu oggetto di diversi provvedimenti legislativi. Una prima legge, risalente al III° sec. a.C. (di cui non si conosce con sicurezza né data, né esatto contenuto, ma introdotta, più probabilmente tra l’anno 241 e il 212) trasferì l’elezione del pontefice massimo dal gruppo pontificale (per cooptazione interna, sino allora, come detto) al popolo – anzi la minor pars populi cioè diciassette tribù sole, tratte a sorte dalle trentacinque che costituivano propriamente i comitia tributa, pur mantenendosi in capo al gruppo sacerdotale, la designazione dei nominativi da sottoporre alla votazione dell’assemblea popolare; indi la lex Domitia (un plebiscito, 104-103 a.C.) estese questo procedimento elettivo a tutti i candidati dei quattuor amplissima collegia; in seguito, una lex Cornelia de sacerdotiis (81 a.C.) avrebbe abolito tale procedura, ripristinando l’antica cooptatio interna; di lì a poco, però, la lex Labiena (63 a.C.) riaffermò la necessità di una votazione da parte dell’assemblea popolare; infine la lex Iulia de sacerdotiis (48 a.C.) avrebbe permesso, in sostanza, la candidatura al sacerdozio in absentia.
Riassumendo, ciascun membro del sacerdozio indicava pubblicamente (in una contio svolta di norma nel Foro, Auct. ad Heren. 1,20) il nominativo del suo candidato prescelto (nominatio), sino a raggiungere un ventaglio di tre candidati, i cui nominativi venivano sottoposti al voto popolare. Il vincitore , doveva poi essere confermato (cooptatio) dal collegio con voto e nomina formale: seguiva un banchetto conviviale particolarmente sfarzoso offerto dal nuovo sacerdote ai colleghi (un esempio ci è descritto con dovizia di particolari da Macrobio nei Saturnali). Neppure sembra fosse necessaria, per quanto la tesi sia stata sostenuta con vigore, una inauguratio (cioè una richiesta di consenso divino alla scelta umana dei sacerdoti eletti o cooptati, per mezzo della presa di auspici, per norma sotto la guida di un augure, sul modello indicato da Livio per l’inauguratio di Numa Pompilio), limitandosi la prescrizione ai soli auguri e flamini maggiori, oltrechè al rex sacrorum. Per alcune cariche (ad es. il Flamen Dialis e le Vergini Vestali) invece del sistema di cooptazione o elettorale, la procedura prevedeva una captio, cioè una nomina diretta attraverso la scelta effettuata dal Pontifex Maximus. Ma se la religio romana non possedeva nulla di iniziatico, ciò non significa che i cittadini romani non abbiano conosciuto forme di iniziazione peregrinae, cioè straniere. Le più note concernevano i culti orientali come quello di Cibele (che entrò a far parte, come noto, della religio publica, ma significativamente, con limitazioni precise per i cives romani) o di Mithra ovvero di Iside. La più antica e conosciuta fu, però, certamente quella relativa all’iniziazione Eleusina: molto apprezzata e tenuta in gran conto, di certo ampiamente tollerata, per quanto non così diffusa per i motivi che vedremo dianzi. Quanto quest’atteggiamento di apertura e accettazione, fosse antico, resta da determinare.
Un noto passo di Cicerone afferma, riferendosi ad antichi usi e leggi che “non si inizi alcuno secondo il rito greco, se non a Cerere, come consentito dall’usanza” (De leg.2,9) . Se Cicerone (che fu iniziato a Eleusi nel corso del suo periodo di apprendistato e studio della filosofia e retorica, probabilmente nel 79 a.C.) si riferisca a un precetto risalente addirittura alla composizione delle XII tavole (metà V sec. a.C. , così interpreta Renato Del Ponte, la Religione dei Romani, Milano 1992, p.243) o non esprima piuttosto, una consuetudine più tarda o addirittura una propria opinione, resta questione aperta. Del resto il giudizio lusinghiero di Cicerone sui misteri eleusini è noto: “infatti la tua Atene mi sembra abbia dato origine a molti ed egregi principii umani e religiosi, e li abbia introdotti nella vita umana, ma poi non vi fu nulla di meglio di quei misteri, dai quali, venuti fuori da vita rozza ed inumana, siamo stati educati e addolciti alla civiltà, e, quindi si chiamano iniziazioni, perché abbiamo conosciuto i princìpi della vita nella loro vera essenza; e non soltanto abbiamo appreso il modo di vivere con gioia, ma anche quello di morire con una speranza migliore” (De leg. 2,36). Ma al di là della regolamentazione normativa, non vi sono dubbi che la conoscenza presso i romani del centro eleusino (così come, quello mantico di Delfi) risalga ai primordi del periodo repubblicano, se non altro per la diffusione nel bacino mediterraneo della fama legata al piccolo centro sacro di Eleusi.
Ciò nondimeno la prima notizia certa di un tentativo di iniziazione a Eleusi di un cittadino romano risale al II sec. a.C. : come ci informa ancora una volta Cicerone, l’oratore e uomo politico L. Licinio Crasso, nel 109 a.C., arrivò con due giorni di ritardo rispetto all’inizio della celebrazione dei “piccoli misteri” (per comodità espressiva non ci addentreremo ai vari problemi posti dal culto eleusino) e nonostante le sue insistenze, le autorità ateniesi non fecereo eccezione alcuna (De orat. 3,75). La richiesta, perfetta, conoscenza del greco per poter partecipare e la necessità di doversi recare in loco, possono spiegare perché di fatto all’epoca fosse fenomeno assai raro quello della partecipazione di stranieri, tra cui i romani; a ciò si aggiunga che, probabilmente, ab origine, solo il possesso della cittadinanza ateniese rendeva possibile l’ammissione. Dopo il suo caso, iniziati a Eleusi con certezza furono Silla (84 a.C., Plut. Silla, 16) , tal T . Pinario (cui fu eretta addirittura una statua a Eleusi per volontà del popolo ateniese, Cic. ad fam.12, 24,3) amico di Cicerone, Appio Claudio Pulcro (che fu console, censore e àugure, nonché proconsole della Cilicia), L. Munazio Planco (generale e uomo politico) così come il nipote M. Tizio (che fu consul suffectus nel 31 a.C) e forse Marco Antonio, su cui però rimangono molti dubbi. Con l’iniziazione di Cesare Ottaviano Augusto (egli si recò per ben due volte a Eleusi nel 31 a.C . e poi ancora nel 19, cfr. Dio Cass. 51,4 e 54, 9: segno di una sincera devozione del principe romano ), il culto eleusino raggiunge la soglia imperiale.
A questo proposito, nonostante le roboanti affermazioni di Arturo Reghini (“gli imperatori anche essi quasi tutti iniziati, da Augusto a Giuliano, che alle sacre cerimonie accordarono la protezione romana” in Le parole sacre e di passo dei primi tre gradi, Todi, 1922; si noti poi che Reghini attribuiva l’iniziazione eleusina a Virgilio, di cui però , non pare esservi traccia alcuna) gli imperatori romani che si iniziarono a Eleusi furono relativamente pochi. Con certezza bisognerà attendere Adriano, per ben tre volte presente presso il santuario eleusino (124,128 e 131 d.C. ) seguito da Lucio Vero (167 a.C.), Marco Aurelio, Commodo (176 a.c.) e infine Flavio Giuliano (361 a.C.). Dubbi permangono su Settimio Severo (cfr. SHA Sept. Sev. 3,7) e Gallieno (di cui si conosce un conio monetale con l’immagine di Demetra e nulla più). Ciò nondimeno, il culto eleusino rimase uno dei principali punti di riferimento per l’antichità classica: ma proprio la rigidità delle sue regole per l’ammissione (che assicurava anche la sua genuinità e purezza, rispetto a culti misterici diffusi ovunque ed esposti dunque a contaminazioni locali) fecero sì che il mondo romano – da cui era tenuto in grande considerazione – non potesse attingervi più di tanto. Un problema che non era sfuggito all’imperatore Claudio, il quale aveva persino pensato a un trasferimento presso l’Urbe delle cerimonie eleusine, secondo il programma religioso di centralizzazione e romanizzazione di culti e religioni, caratteristico del suo principato. Ma l’opposizione incontrata in vari ambienti fece desistere Claudio (Svet. Claud. 25).
Stefano Bianchi.