Secondo la tradizione romana, fu nel giorno dei Palilia che Romolo fondò la città [Var. R. R. II, 1, 9; Cic. Div. II, 98; Prop. IV, 4, 73 – 80; Ov. Met. XV, 774 – 75; Plut. Num. III, 6; Vel. Pat. I, 8; Plin. XVIII, 247; Schol. in Pers. I, 72; Cas. Dio. XLIII, 42, 3; Fest. 239; Cens. D. N. XXI, 6; Hyerom. Chron. 88a; Schol. Ver. in Verg. Georg. III, 1].

Le versioni del racconto sono numerose e spesso divergenti per alcuni punti, ma è possibile combinarle per ricostruire un racconto unitario1.

Dopo aver restaurato il nonno Numitore sul trono di Alba, Romolo e Remo, assieme a coloro che li avevano seguiti durante la loro vita da briganti e da una parte del popolo di Alba e di Lavinio, si accinsero a fondare una città sul sito in cui erano vissuti con Faustolo (una versione alternativa vuole che sia stato il nonno a spingere i giovani a fondare una nuova città, fornendo loro uomini e risorse).

Abbiamo qui un’eco dell’antico rito italico del ver sacrum, la primavera sacra nel corso della quale i giovani, precedentemente consacrati agli Dei, lasciavano la propria comunità per andare a fondarne una nuova, seguendo i segni inviati dal cielo, spesso sotto forma di un animale totemico [Serv. Aen. VII, 796; L. Corn. Sisen. Fr 99 P apud Non. 522, 12; Fr 100 P apud Non. 277, 12; Macr. Sat. III, 7, 6; Fest. 320 – 321; 379; Liv. XXII, 10, 2 – 6; XXXIII, 44; XXXIV, 44; Plut. Fab. Max. IV]. Non sarebbe un caso il fatto che il sito su cui sorgerà Roma, vide i gemelli nutriti dalla lupa e dal picchio, entrambi animali legati a Marte (divinità guida dei veri sacra), che compaiono nelle tradizioni italiche relative a tali migrazioni [Fest. 106; 158; 212; 320 – 321; Dion. H. I, 16; Serv. Aen. VII, 796; XI, 785; Strabo. V, 3, 1; 4, 2; 4, 12; Fest. 106; 212]: è ipotizzabile che nelle tradizioni più antiche, poi rielaborate per confluire nella vulgata, fosse stato proprio uno di questi animali, o entrambi, a guidare la migrazione degli albani al seguito dei gemelli Romolo e Remo.

Giunti nei luoghi della loro infanzia, sorse una discordia tra i fratelli su chi avrebbe avuto il diritto di fondare la città e sul sito della sua edificazione: Romolo scelse il Palatino, Remo, l’Aventino [Var. L. L. IX, 50; Ov. Fast. IV, 809 – 17; Verg. Aen. I, 275 – 77; Liv. I, 6; 7; Flor. I, 1, 6 – 7; Dion. H. I, 85 – 87; Val. Max. II, 2, 9; Plut. Rom. IX; XI; Strab. V, 3; Serv. Aen. I, 273; Fest. 276; Zon. VII, 3; PsAurel. Vict. OGR. XXXIII]. Per dirimere la questione si ricorse a una contesa augurale, entrambi i fratelli presero gli auspici, Remo, vide per primo sei avvoltoi, Romolo, successivamente, ne vide dodici posarsi sul colle da lui scelto2 [Enn. Ann. I, Fr. 47 V; Val. Mes. Corv. Fr. 2 H apud Gel. XIII, 14, 5 – 6; Ov. Fast. V, 151 – 54; Prop. IV, 6, 43 – 44; Cic. Nat. Deor. III, 5; Rep. II, 16; Div. I, 3; 30; II, 12; 70; Fest. 270; Dion. H. XIV, 2, 5; Plut. Rom. XXII, 1 – 2; Cam. XXXII, 6 – 7; Diod. Sic. VIII, 5; Ael. Nat. Anim. X, 22]. Fu così deciso che fosse quest’ultimo il fondatore della nuova città, allora Romolo, salì sull’Aventino e scagliò una lancia in corniolo sul Palatino per prenderne possesso ritualmente. La lancia si conficcò nel terreno e presto ne nacque un albero di corniolo, che, secondo la tradizione sopravvisse per molti secoli [Ov. Met. XV, 560 – 64; Plut. Rom. XX, 6; Serv. Aen. III, 46; Lact. Plac. Myth. XV, 48].

La descrizione del rito di fondazione ci è stata trasmessa da diversi autori [Var. L. L. V, 143; Liv. I, 7, 2 – 4; 44, 4 – 5; Dion. H. I, 88, 1 – 3; II, 65, 3; Ov. Fast. IV, 817 – 36; Plut. Rom. XI – XII; Lyd. IV, 50; Gel. XIII, 14, 2; Tac. Ann. XII, 24; Diod. Sic. VIII, 6, 1]

Il testo più antico che riporta il rito fondativo, è una passo delle Origines di Catone: Romolo, aggiogati un toro sul lato destro (esterno) e una vacca su quello sinistro (interno), indossò la toga al modo di Gabii (cinctus gabinus) e, col capo velato, tracciò il perimetro della nuova città tenendone la stiva inclinata, così che le tutte le zolle sollevate, cadessero nello spazio interno al solco. In questo modo tracciò il percorso delle future mura, alzando l’aratro in corrispondenza di quelle che sarebbero state le porte della città [Cato Orig. I Fr 18 C = 18 P apud Serv. Aen. V, 755] (Errore: sorgente del riferimento non trovata; Errore: sorgente del riferimento non trovata).

La descrizione più dettagliata si trova in Plutarco, il quale precisa che il fondatore era guidato da esperti etruschi nel compimento del rito: riuniti i futuri abitanti della città, Romolo scavò una fossa circolare (nel luogo che sarebbe poi diventato il comitium), che sarà chiamata mundus, e ognuno vi gettò dentro ciò che è bello secondo consuetudine e necessario secondo natura e poi una manciata di terra presa dal proprio luogo di provenienza. Dopo aver aggiogato un toro e una vacca a un aratro di bronzo, tracciò il perimetro della nuova città, attorno a pietre di confine, in forma circolare (avente per centro il mundus). Mentre compiva tale azione, alcuni uomini che lo seguivano facevano sì che tutte le zolle smosse, nessuna esclusa, ricadessero nello spazio interno al perimetro. Dove sarebbero sorte le porte della città, il vomere veniva alzato [Plut. Rom. XI].

Di un etruscus ritus per la fondazione di Roma, come di altre città del Lazio, parla chiaramente Varrone: l’autore reatino scrive che il rito doveva svolgersi in un giorno in cui erano stati presi gli auspici e descrive l’aggiogamento di un toro e di una vacca all’aratro, al fine di tracciare un solco; afferma anche che la città era protetta religiosamente da una fossa e da un muro, sfortunatamente il passo riguardante la sostanza di tali fossa e muro e il loro rapporto col pomerium, è molto oscuro [Var. L. L. V, 143]. Varrone aggiunge anche un’etimologia di urbs, città, termine che deriverebbe da orbe, in riferimento al suo perimetro circolare, o da urvus, l’aratro con cui esso è tracciato [Var. L. L. V, 143; cfr Isid. Orig. XV, 2]

Ovidio non si discosta molto dal racconto plutarcheo, la differenza principale è nella descrizione della fossa che è situata sul Palatino e non viene mai chiamata mundus, inoltre gli uomini vi gettano terra e cereali e poi la chiudono, costruendovi sopra un altare su cui arderà il primo fuoco della città [Ov. Fast. IV, 819 – 36] (alcuni autori hanno visto in questa descrizione un riferimento alla Roma Quadrata [Fest. 258 – 60]).

Per Dionigi, che dà un resoconto più succinto, il perimetro della città sarebbe stato tracciato, in forma quadrangolare, sul Palatino [Dion. H. I, 88], stessa collocazione che indica Livio [Liv. I, 7, 2 – 4], mentre Tacito descrive le pietre di confine che formavano il pomerium romuleo (e che sarebbero identificabili con quelle menzionate da Plutarco), ai piedi del colle Palatino [Tac. Ann. XII, 23].

Al termine del rito di fondazione (in verità l’autore non precisa il momento in cui tale atto sarebbe avvenuto), secondo Giovanni Lido, Romolo prese una tromba rituale, lituus e la suonò proclamando il nome della nuova città [Lyd. IV, 50].

Il significato della scelta della coppia toro – vacca è chiara (ancorché sia stata esplicitata da Giovanni Lido [Lyd. IV, 50]): il toro simbolo di forza e fierezza era posto sul lato esterno, affinché tali doti del popolo romano incutessero timore in possibili nemici; la vacca simbolo di fertilità, mansuetudine e docilità era all’interno, affinché il popolo vivesse nella concordia e crescesse prospero.

Seguendo le indicazioni di Catone, Varrone e Plutarco, possiamo concludere che, per gli autori romani, Romolo fondò la città tracciando un solco con un aratro aggiogato a un toro e una vacca, girando da destra verso sinistra, tuttavia, poiché gli aratri romani avevano un vomere simmetrico, tale azione avrebbe fatto ricadere le zolle di terra da una parte e dall’altra del solco. Per evitarlo, e fare sì che tutta la terra fosse compresa all’interno del perimetro sacro della città (andando a formare il primo murus del centro abitato3), l’ecista tenne il vomere inclinato creando un urvum, ossia un solco curvo [Var. L. L. V, 27; 31; Fest. 375; Serv. Georg. I, 170] da cui sarebbe derivato il termine urbs, circondato da un solco curvo [Alf. Var. Fr. 4 F apud Dig. L, 16, 239, 6; Fest. 375].

Sappiamo anche che, come la fondazione di una città avveniva con l’aratro [Serv. Aen. IV, 212], così la sua distruzione comportava un’aratura, ossia una dis-aratura: sulle rovine di una città distrutta il rito di fondazione era ripetuto in senso contrario, come ci illustra l’esempio di Cartagine [Diod. XIII, 8; App. Pun. 75 – 76; Polyb. III, fr. 29, 4 – 6].

Tralasciamo l’analisi del rapporto tra pomeriumsulcus e murus che è stato oggetto di un ampio numero di pubblicazioni4,5.

La posizione della fossa descritta da Plutarco è incoerente con i dati archeologici che indicano che tale area fu occupata solo dopo la fondazione della città6,7 è quindi probabile che l’autore greco abbia visto, alla sua epoca, un sito di epoca successiva, probabilmente successivo alle riforme serviane e all’allargamento del pomerium. Nonostante questo, la descrizione che ci ha lasciato rimanda ad un archetipo che è parte integrante della visione del mondo tradizionale8: la fondazione di Roma è innanzitutto una ierofania, il sacro si manifesta attraverso una frattura nella omogeneità dello spazio e del tempo da cui scaturiscono un tempo e uno spazio sacri qualitativamente diversi da ciò che c’è attorno.

Tale frattura è innanzitutto un punto, un centro sito in un determinato luogo che è la proiezione nella dimensione terrena dell’asse che unisce tutti i mondi, mettendoli in comunicazione così da creare un “canale” attraverso cui si instaura un flusso continuo, necessario al mantenimento dell’equilibrio (ovvero dell’ordine) che regola l’intero cosmo.

Il mundus descritto da Plutarco, assolve proprio a questa funzione: fossa la cui parte inferiore era consacrata agli Dei Inferi e la parte superiore era rappresentazione del cielo [Cato Com. Jur. Civ. Fr 1 apud Fest. 154], quando veniva aperto, metteva in comunicazione i tre livelli del cosmo, così che le forze imprigionate al disotto, potessero fluire (manare) liberamente. Una volta chiuso, Romolo vi fondò un altare su cui bruciava il fuoco sacro della città, altro simbolo polare dell’asse che unisce i domini dell’universo, nonché dell’incessante flusso che, attraverso il rito sacrificale, preserva la salus (ossia l’integrità) del cosmo). Al medesimo simbolismo alludono sia la lancia, che l’albero di corniolo da essa nato sul Palatino: anche questa tradizione ci insegna che il primo atto compiuto da Romolo nel momento in cui decise di fondare la nuova città, fu quello di stabilire un asse che unisse tutti i piani della realtà, un centro, sul piano terrestre che, essendo mediano tra quello celeste e quello ctonio, diventa centro dell’intero cosmo.

Esso è anche il centro dello spazio sacro della città: attorno ad esso viene tracciato il perimetro dell’urbs, ovvero viene definito uno spazio sacer, chiuso e perfetto, che irradia in tutte le direzioni, la qualità particolare (sacralità) del centro. L’atto di fondazione è così una sacralizzazione dello spazio e del tempo (per questo aspetto) e una cosmicizzazione, la creazione di una dimensione ordinata, qualitativamente diversa e separata dallo spazio omogeneo (perché) informe che lo circonda. La forma circolare rappresenta la perfezione di tale spazio e la sua relazione con il centro: dal centro si costruisce la circonferenza e viceversa, la circonferenza è la proiezione del centro lungo i raggi.

L’atto primigenio, in quanto creazione di un cosmo, è rappresentazione della processione degli enti divini: all’uno indifferenziato, il centro e nucleo del cosmo, segue la prima polarizzazione in cielo e terra, maschio e femmina, i due opposti che vengono riuniti nel rito dell’aratura che rappresenta simbolicamente la fecondazione del principio femminile: è a questo punto che esso, gravido di tutto ciò che deve esistere nel cosmo, affinché esso sia perfetto e completo, genera il tutto, in primo luogo lo spazio e il tempo. Un tutto che è però compreso nell’abito del sulcus poiché un cosmo perfetto necessita di completezza e chiusura: la circonferenza rimanda così al centro, la processione degli enti cominciata dal centro ritorna alla sua origine, non il centro terreno, che è solo una proiezione, un’immagine, ma al suo centro divino. Attraverso il sacrificio, che il fuoco trasmette nei cieli, ciò che procede dagli Dei torna agli Dei: si stabilisce così un nuovo cerchio che opera in senso “verticale” laddove il sulcus esiste sul piano “orizzontale”; anche il flusso tra i piani dell’esistenza è chiuso e perfetto. Così le due figure producono una sfera, il cosmo nella sua completezza e perfezione.

Dal momento della fondazione lo spazio sacro viene ad esistere come ambito in cui si esplica l’azione divina, in cui la sovrabbondanza provvidenziale produce tutto, ciò che è buono e utile, ma anche ciò che apparentemente è il suo contrario (essendo il buono e l’utile categorie relative al piano umano). Tale azione eternamente uguale a se stessa si manifesta sul piano umano nei cicli naturali, immagine dell’eterno sempre identico a se stesso, nel dominio dello spazio / tempo. Per questo motivo, la fondazione di Roma avvenne nel giorno sacro alla dea Pales, Colei che presiedeva ai parti degli animali, ossia la Potenza generativa che assicura l’eterno perpetuarsi delle specie viventi, la divina sovrabbondanza causa dell’eterno rinnovarsi delle generazioni. Sua controparte non può che essere il rito sacrificale, attraverso il quale ciò che viene dall’alto torna alla sua origine, rito che, per essere isomorfico alla realtà ultima non può che essere eterna ripetizione dell’uguale perché proprio la permanenza della forma è la modalità attraverso la quale il divino si manifesta nel piano materiale.

L’urbs diventa orbs, lo spazio delimitato dal sulcus (urbs) viene a coincidere con l’interezza dello spazio terrestre, l’orbs terrarum [Ov. Fast. II, 683 – 84; A. A. I, 174 – 75; cfr. Cic. Pro Mur. XXII; Cat. IV, 11; Nep. Att. XX, 5; Prop. III, 11, 57] perché è proprio nel momento in cui viene tracciato il sulcus, ossia che viene fissato il primo confine, che lo spazio tout court viene ad essere e tale spazio non è altro che lo spazio sacro la cui definizione può avvenire solo in relazione al centro / asse cosmico167.

In questo senso il sulcus è autenticamente sulcus primegenius [Fest. 237]: non solo “il primo nato”, ma propriamente, il nato prima, l’idea stessa di confine, la primigenia distinzione tra gli elementi e quindi il punto che è all’origine dello spazio (sacro) e del tempo (sacro), ossia del cosmo [Var. R. R. I, 40, 2; L. L. VI, 36; Var. apud August. C. D. XIX, 2].

Gli autori latini hanno speculato sulla relazione tra il termine urbs e orbs [Pomp in Dig. L, 16, 239; Serv. Aen. I, 12]

… post ea qui fiebat orbis, urbis principium … Quare et oppida quae prius erant circumducta aratro ab orbe et urvo urbes; et, ideo coloniae nostrae omnes in litteris antiquis scribuntur urbes, quod item conditae ut Roma; et ideo coloniae et urbes conduntur, quod intra pomerium ponuntur… [Var. L. L. V, 143]

La circolarità del percorso del sulcus rappresenta la perfezione dello spazio sacro che si espande simmetricamente in tette le direzioni, equidistante dal centro. Esso rappresenta anche l’armonia esistente in questo momento primigenio, in cui tutto nel cosmo aveva il posto che gli competeva, senza disequilibrii. A tale armonia si ricollegano anche gli autori che parlano di una Roma originariamente Quadrata: il quadrato, figura in cui tutti i lati erano uguali era proprio i simbolo di questo perfetto equilibrio primigenio.

… dictaque primum est quadrata, quod ad aequilibrium foret posita… [Var. apud Sol. De Mirab. I, 17]

Se analizziamo nel dettaglio il racconto plutarcheo, emerge però che Romolo tracciò il solco attorno ad un percorso individuato da segni, probabilmente delle pietre, che definivano quello che doveva essere il pomerium originario164 [Tac. Ann. XII, 23], il che dimostra che l’area della nuova città era anzitutto un templum, ossia una porzione di spazio “tagliata via” (dalla radice *tem- tagliare) dall’informe (e omogeneo) e portata a essere attraverso la parola del rex – augur (effatio): la fondazione fu anche una contemplatio, un racchiudere all’interno di un confine lo spazio sanctus perché auspicato9 (va rilevato che, nella versione di Ennio, il templum su cui sarebbe sorta Roma, non solo fu oggetto di auspicio favorevole, ma fu scelto proprio perché gli uccelli augurali vi discesero indicandolo esplicitamente come luogo della manifestazione della volontà di Juppiter, in tal senso vera e propria ierofania).

Come sappiamo dalle fonti romane, preliminare al rito di fondazione era la creazione del templum in terris, ossia la proiezione del templum calestis, l’archetipo divino, sul piano terrestre. Tale azione avveniva tracciando per prima cosa gli assi orientati secondo i punti cardinali, da cui si generava un reticolo che permetteva la quadratura dell’archetipo circolare e la sua proiezione sulla terra166 [Grom. Vet. Front. 27, 13 – 28, 15; Hyg. 108, 9 – 11; 114, 15 – 19; 166, 8 segg.]. Il reticolo così creato era segnato da cippi che formavano il pomerium e che erano poi sepolti: abbiamo così una progressione che dall’archetipo celeste si proietta sul piano terrestre, per discendere in quello infero (ossia sotto terra). Il pomerium ha forma quadrangolare, ma definisce un poligono inscritto in una circonferenza con cui condivide il centro. A seconda di quale delle due figure gli autori antichi hanno considerato, essi ci hanno tramandato una forma quadrata o circolare per la città originaria, ma tale opposizione è in realtà inesistente.

Maurizio Gallina.

1 L. Ferro, M. Monteleone – Miti Romani, Torino 2010, pgg 101 segg.

2 Per un’analisi dettagliata dei problemi posti dalle versioni di tale contesa riportati dalle fonti, G. De Sanctis – La Logica del Confine, Roma 2015, pgg 123 segg.

3 G. De Sanctis – Urbigonia in I Quaderni del Ramo d’oro on‐line, numero speciale (2012), pgg 105 – 35

4 Per cui si rimanda a G. De Sanctis – Solco, muro, pomerio in Mélanges de l’École française de Rome. Antiquité 119/2 (2007) pgg 503 – 26 e Idem – La Logica del Confine, pgg 132 segg

5 A. Gottarelli – Contemplatio. Templum solare e culti di fondazione, Bologna 2013

6 M. Humm – Le mundus et le Comitium: représentations symboliques de l’espace de la cité in Histoire urbaine 2004/2 n° 10, pgg 43 – 61. Idem – Le Comitium du forum romain et la réforme des tribus d’Appius Claudius Caecus In: Mélanges de l’Ecole française de Rome. Antiquité T. 111, N°2. 1999 pgg 625 – 94

7 A. J. Ammerman – The Comitium in Rome from the Beginning in American Journal of Archaeology Vol. 100, No. 1 (Jan., 1996), pgg 121 – 36

8 M. Eliade – Il Sacro e il Profano § 1

9 Per le questioni relative all’auspicatio di Romolo vedi G. De Sanctis – La Logica del Confine, op. cit.

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