Quale popolo avrebbe potuto conoscere meglio i Barbari del popolo romano, quest’ultimo che passò la quasi totalità della sua storia a lottare contro di essi, a civilizzarli, ad assimilarli? Popolo che li vide così bene e costantemente sia alle porte che all’interno del suo dominio? Il contatto tra Roma e la barbarie fu stretto e costante, una barbarie massiccia, molteplice, sempre rinnovata, l’epoca romana coincidendo con un lungo periodo di tumulti da parte delle gentes, particolarmente in Europa.
I romani hanno in questo modo acquisito per necessità una completa e diretta dei barbari, essendo continuamente obbligati a difendersi contro di essi, fisicamente e moralmente, a caratterizzarsi in opposizione a loro, a preservare la loro civilizzazione, civilizzandoli allo stesso tempo. Necessità vitale e permanente per ogni romano che doveva conoscere ciò che era la barbarie, se voleva sopravvivere e restare se stesso. L’esperienza di Roma, profonda, costante, avverte sempre la lotta, la minaccia, il dramma: si tratta di una testimonianza vera ed unica. Dotati per l’analisi psicologica, interessati specialmente alla morale pratica, alla padronanaza delle energie fisiche e mentali, all’arte di condurre gli spiriti e di educare gli uomini, i romani non si sono lasciati distrarre dai costumi pittoreschi né dalle curiosità etniche. Si sono applicati a scrutare il contenuto psicologiche e morale della barbarie, ad esaminare le sue strutture mentali, i suoi modi di essere e di pensare, a definire il barbaro nella sua unità ed universalità. Al di là delle differenze secondarie occorreva dunque cogliere le linee di forza, i temi principali, i costumi caratteristici. Ispirandosi ad una struttura concettuale ereditata dai greci, ma lavorando soprattutto sul nuovo, hanno considerevolmente perfezionato e trasformato gli elementi origiali di un sistema, ricominciando e verificando di continuo le loro analisi. Poterono costituire, così, uno schema fondamentale che definisce l’archetipo barbaro, cui tutti i barbari non sono altro che delle incarnazioni particolari.
Grazie al numero, alla precisione ed alla continuità delle osservazioni effettuate, questo studio si è costantemente sviluppato e arricchito, mantenedo i suoi tratti essenziali. La perspicacia dei romani capaci di penetrare e di comprendere nei minimi dettagli la mentalità barbara, conferisce a questa estesa inchiesta un valore incomparabile, una profonda verità: vi è dunque un contributo di prim’ordine alla conoscenza dell’uomo. Inoltre, il concetto di barbarie non concerne unicamente l’esteriore, le gentes o nationes exterae, ma è correlato all’esistenza stessa del romano, che lo riscontra in tutti i campi della sua attività – politica, sociale, etnica, religiosa, artistica, ecc. Avendo dovuto esso stesso emergere da una barbarie originale e condurre una dura lotta per padroneggiare la violenza e la dismisura inerenti al suo temperamento, avendo per lungo tempo riflettuto sull’essenza della civilizzazione e costamentemente combattuto per evitare il rimprovero di barbarie e rendersi degno di essere riconosciuto come il civilizzatore, ha beneficiato di una esperienza personale autentica della natira della barbarie e dei suoi pericoli. Agevolmente, supera così il punto di vista strettamente etnico o nazionale dei greci, allo scopo di ampliare la nozione di barbarie alle dimensioni dell’universale.
Riflettendo assiduamente sgli altri e su sé stesso, il romano si applica ad imporre il suo genio, che non è altro per lui, che il genio umano creatore dell’ordine e della civiltà, contro qualsiasi ostacolo, interno ed esterno. Una permanente volontà di antitesi tra romanità e barbarie pone il problema sul piano della lucidità, della lotta e dello sforzo ad un livello ad un tempo etico, cosmico e metafisico. Beninteso, per il romano il barbaro non costituisce una specie differente, ma uno stato inferiore – sia collettivo, sia individuale – dell’uomo, un modo d’essere difettoso, incompiuto ed incompleto – non definitivo, ma variabile. I barbaro, come d’altronde il civilizzato, è soggetto a mutazione e può sempre evolversi: l’accesso alla humanitas è sempre possibile allo stesso modo della caduta o ricaduta nella barbarie. Del resto il romano sa bene che alle due estremità del ciclo evolutivo si trovano due forme complementari della barbarie e che è molto difficile nella mobilità del reale, essere e rimanere civilizzati.
Tutto consiste nel controllare l’evoluzione per raggiungere il punto d’equilibrio e matenervisi – associando a questo sforzo il maggior numero possibile di individui, ciò che è stato l0ideale romano propriamente detto. Nell’insieme, la visione romana della barbarie sembra essere quella di un popolo attivo, volitivo, dominatore, contemporaneamente realista e idealista, appassionato dell’ordine e dell’unità, abituato a combattere e a creare, capace di una guerra “interiore” come di una “esteriore”. Il barbaro è l’ostacolo, l’avversario, la sfida, il male, la minaccia permanente ed anche la materia ribelle da trattare e trasformare: questa presenza è dunque ad un tempo pericolosa e stimolante. Il romano, sentendosi realmente impegnato in una lotta cosmica, sviluppa una visione del mondo tanto audace quanto drammatica. In questo modo, la sua concezione della barbarie ci appare come una creazione originale e permanente, dai molteplici valori. Ciò è già sufficiente a presentare la testimonianza romana come la più completa, la più lucida e forse la più commovente. Chi non vede di quale utilità può essere per noi? Questa esperienza e questa presa di coscienza uniche costituiscono un eccellenbte punto di partenza, uno stimolo ed un esempio per una riconsiderazione o una conversione della nostra civiltà… …
Qual è, al di fuori delle vitali esigenze inerenti ad ogni società, lo specifico scopo di Roma in quanto potenza a vocazione universale? Per essa, si tratta di far trionfare, sulla realtà inferiore e sulle forme difettose dell’altro, il suo ideale ed il suo vero essere, di fare dominare ovunque e sempre la vita e l’ordine romano, di collaborare con la divinità nell’esercizio di quest’arte magistrale e perpetua così luminosamente esaltata da Virgilio. Il romano mette tutta la sua volontà in ciò a cui si crede predestinato, è convinto di avere un missione da compiere, e si comporta come se fosse spinto da una forza insieme interiore e divina. Questa intenzione essenziale governa una riflessione permanente nella quale convergono un’autocritica lucida e un’incrollabile fiducia in sé stesso.
Più esattamente, il romano che ha un’alta idea del suo ruolo e della sua “arte”, ha come scopo di dominare la totalità del reale, di padroneggiare il tempo e la storia, di perfezionare la messa in ordine dell’universo. Cerca di creare un essere superiore mediante un’ascesi rigorosa, vale a dire realizzare il romano archetipico e formare, partendo dai reali valori umani, della personalità quanto più possibile dotate, una egemonica élite universale, coniugando la potenza alla saggezza e lavorando al servizio del mondo. Egli intende allo stesso modo costituire un ordine superiore, una unità armonica e cosmica, nella pienezza di una creazione rinnovata, e mettere in opera una “sinergia” fondamentale, un’alleanza privilegiata tra le forze divine e le forze umane per costruire la città santa e far pervenire i migliori alla deificazione personale. Ma, se ha coscienza della sua superiorità, il romano possiede anche un acuto senso della sua responsabilità e dei suoi doveri, ed anche della propria imperfezione e dei suoi difetti. È costantemente in preda all’insoddisfazione, all’inquietudine: ogni cosa è per lui occasione di interrogarsi, di riflettere, di confrontare il suo ideale con la realtà, d’apprezzare la sua situazione in funzione del proprio sistema di valori. Deve costantemente lottare contro una materia ribelle, presente tanto all’interno che all’esterno di sé stesso, e questa lotta diventa tanto più dura quanto il suo ideale è elevato. Roma lavora per Roma: essa è il suo fine al di sopra di tutto, – ma allo stesso tempo lavora per l’universo, poiché si considera e si vuole come uno stato superiore dell’essere. Per essere precisi, i fini che essa persegue possono, dal punto di vista dell’energetica, ricondursi a sei, che sono: la verità, l’ipseità, l‘integralità, la creatività la superiorità e l’unità.
La verità è per Roma il valore in sé, l’assoluto: si tratta, per attingere realmente l’essere, di possedere la pienezza della vita e dell’energia, la più grande perfezione possibile, di appropriarsi dell’essenza universale dell’uomo-dio, di raggiungere il centro stesso dell’Essere. La ricerca dell’ipseità non è altro che la volontà di conquistare un’identità coerente e superiore, l’io romano specifico essendo meno un dono che il frutto di un’ascesi continua. Ridefinire ininterrottamente la romanità essenziale, con le sue idee-forza ed i suoi valori fondamentali al fine di assicurarsi il possesso dell’essere, costituisce per il Romano una esigenza insieme metafisica, pratica e vitale. Volere la totalità, è desiderare di pervenire alla potenza totale, per approfondimento e accumulazione, ottenere la signoria dello spazio e del tempo, del divenire e dell’essere, realizzare la congiunzione di tutte le qualità e di tutti poteri.
La creatività è lo scopo del romano in quanto egli cerca di costruire sé stesso costruendo il mondo, di incarnare le sue idee, di rimodulare la realtà secondo un progetto degno di Roma e degli dei. Aspirare alla superiorità significa voler possedere l’eccellenza in tutto, la libertà essenziale di chi si controlla e domina il mondo in uno stesso atto sovrano: si tratta dunque di esercitare l’imperium melioris, formulatipicamente latina in cui i termini sono correlativi, poiché può comandare solo il migliore – ed il migliore deve comandare. Roma, infatti, ha coscienza di portarlo seco, sia per le qualità che essa solo possiede, sia per il grado in cui essa porta le qualità comuni, sia infine perl’insieme delle qualità che essa riesce a costituire. Ricercando l’unità, essa si propone di realizzare, ad ogni livello, su tutti i piani, un ordineorganico e stabile, di ottenere la coerenza dalla complementarietà e l’accordo, di instaurare l’armonia nella persona, la città, l’umanità, il cosmo e, in modo generale, tra gli uomini e gli dei. Data l’importanza di questi fini, così assiduamente perseguiti, ci si può aspettare che tutto quello che vi si oppone, – vale a dire le diverse forme di uanitas, di alienazione, d’irrazionalità, di negatività, di impotenza, di discordia – ,costituisce precisamente per Roma l’essenza stessa della barbarie. In questo modo si può notare che l’a’ttività romana è interamente orientata verso un’incessante messa in opera ed in ordine della realtà,verso la realizzazione di un essere e di una società superiori: suo obiettivo più alto è ricercare l’universo in un senso sempre più romano.
Trattasi di un’energia di ordine architettonico e di valore fondamentale, di cui si ritroverà, del resto, il movimento creatore nelle grandi correnti religiose e filosofiche d’Occidente. Questa “arte” sovrana in cui Roma si riconosce come la detentrice privilegiata e che somiglia molto all’”arte reale” tradizionale, mira in effetti, grazie ad un processo continuo di trasformazione e di organizzazione, a fare del mondo un’architettura totale. Tutto ciò che faciliterà l’opera di Roma in questa direzione sarà considerato come buono e romano, tutto ciò che la contrarietà sarà reputato malvagio e barbaro. – in ogni luogo, on ogni tempo, in ogni essere. Certamente, Roma non fu mai esente da debolezze, né da errori; ma, al di là di ogni vicissitudine presente nella sua storia, è sempre persistita in essa questa specifica energia di alto valore che ha fatto della romanità un eccezionale focolaio di forze creatrici e trasformatrici. Riteniamo indispensabile restituire a questa Roma, oggi così screditata, l’originalità della sua energetica, come anche la autentica dimensione metafisica e spirituale e di vedere in essa , obiettivamente, una delle più luminose e durevoli incarnazioni della umana volontà creatrice.
Yves Albert Dauge
“Sulla concezione romana della barbarie e della civilizzazione”
Traduzione di Deborah Merlino. Da “Politica Romana” n.9 del 2013.